panni
Dott.ssa Stefania Ravasi

Dott.ssa Stefania Ravasi

A quale età i bambini imparano a mettersi nei panni altrui? [3-6 anni]

INDICE CONTENUTI

Per diventare competente sul piano sociale il bambino deve sviluppare la capacità di comprendere che le persone e sé stesso sono dotate di stati interni, emozioni, pensieri, intenzioni, scopi che orientano il comportamento e le relazioni con gli altri e con il sistema di norme e di valori sociali, la cui comprensione è un requisito indispensabile alla socialità.

Ma a quale età il bambino diventa consapevole della propria identità e di quella degli altri, a che età cioè riesce a fare dell’empatia uno strumento efficace per creare e mantenere relazioni positive indispensabile per una crescita armonica?

Scopriamo insieme quando i bambini iniziano a mettersi nei panni altrui!

1. Per mettersi nei panni altrui si deve iniziare 

La consapevolezza emotiva e cognitiva di sé stesso è frutto sia di una consapevolezza primaria fondata sulle informazioni sensoriali di tipo visivo, acustico, motorio (quindi le informazioni che il bambino trae riguardo a se stesso hanno a che fare con le cose che vede e sente intorno a sé, i movimenti che compie) sia da una consapevolezza secondaria che si basa invece sul concetto profondo che il bambino ha di se stesso – quella che chiamiamo coscienza e che può svilupparsi solo dopo il secondo anno grazie soprattutto all’acquisizione delle competenze linguistiche, indispensabili per narrare e costruire una propria storia autobiografica.

Per verificare il raggiungimento di questa tappa evolutiva, potete fare un piccolo divertente esperimento, ponendo il vostro bambino davanti a uno specchio dopo avergli colorato senza che lui se ne accorgesse la punta del naso magari con del rossetto o qualcosa di non invasivo e impercettibile: a quattro o cinque mesi i piccoli sono fortemente attratti dall’immagine della madre riflessa allo specchio ma non dalla propria, mentre nei mesi successivi verso i 12 e i 18 mesi cominciano a manifestare la capacità di riconoscersi, dunque di avere consapevolezza di se stessi.

2. Percezione di sé

E’ necessario che il bambino possa partire dalla percezione della propria immagine fisica e la riconosca, per poter parlare di autoriconoscimento vero e proprio come indice di conoscenza di sé: in base alla sua reazione alla propria immagine allo specchio col naso rosso, potrete notare come se si tocchi il naso cercando di cancellare la macchia, questo comportamento possa indicare la consapevolezza che il viso è il suo, dunque la presenza della coscienza di sé; al contrario se non verrà manifestato alcun comportamento diciamo di stupore o il tentativo di cancellarsi la macchia dal naso, significherà che il vostro bambino sarà ancora immerso nella fase di sviluppo della consapevolezza di sé e dell’auto riconoscimento.

3. Il pensiero “egocentrico” dei bambini

Ora che il processo di acquisizione della coscienza di sé è completato, verso i 15/18 mesi, è possibile per il bambino sviluppare progressivamente anche la comprensione e la coscienza degli altri in termini di desideri, pensieri, emozioni e dunque utilizzarli come informazioni preziose per tessere e mantenere delle buone relazioni.

Fino ai 4 circa i bambini hanno una comprensione del mondo e delle persone guidata da un pensiero “egocentrico”, in cui per loro è difficile capire che le persone hanno punti di vista ed emozioni differenti dalle proprie; in questo stadio il proprio punto di vista è perfettamente aderente all’effettivo stato di cose nella realtà: per cui dinanzi a un gioco in cui la madre nasconde davanti agli occhi del bambino in una delle due mani una caramella, e poi gli è richiesto di dire in quale mano il papà, che è arrivato successivamente, cercherà la caramella, la risposta più probabile sarà quella in cui il bambino ha visto la madre nascondere la caramella.

Questo perché la credenza del bambino è aderente al dato oggettivo e reale, non è ancora in grado di pensare che il papà può avere un altro punto di vista, e un punto di vista differente dall’effettiva realtà.

4. Mettersi nei panni altrui: da che età è possibile?

Al procedere dello sviluppo cognitivo ed emotivo, l’immagine che il bambino ha degli altri diventa sempre più ampia fino a riuscire a contenerne anche il punto di vista personale attraverso cui vedono e sentono la realtà, arrivando a un livello di competenza che li rende capaci non solo di valutare ma anche di confrontare le opinioni altrui con le proprie: è un importante cambiamento che sancisce la comprensione che c’è una differenziazione tra stato di cose effettivo e rappresentazione mentale ovvero credenza e prospettiva personale, che avviene tra i 5 e i 6 anni fino ai 9 anni, in cui i vari punti di vista

Potranno essere giustificati in base a sistemi valoriali diversi e propositi individuali nelle persone: ora il bambino è in grado di porsi nella prospettiva di un’altra persona ed è capace di riflettere sul proprio comportamento e sulle proprie motivazioni, infatti è pronto per comprendere a pieno e fare proprie le norme e regole, da seguire non solo per il rischio di una punizione esterna ma per l’interiorizzazione della norma stessa.

Fra i 10 e gli 11 anni il bambino scopre che sia lui che gli altri possono prendere in considerazione simultaneamente e reciprocamente rispettivi punti di vista e dai 12/13 anni il ragazzo riesce a confrontare due o più punti di vista che appartengono a gruppi e società e non solo più a singoli individui, imparando il valore della collettività.

5. Il ruolo dei genitori in questo processo

In questo lungo e articolato processo, il ruolo dei genitori è fondamentale perché sono i primi allenatori dell’empatia e della capacità di mettersi nei panni altrui: è importante favorire l’empatia, cioè quella capacità di mentalizzare quindi pensare alle emozioni proprie ed altrui.

Come? Nominando le emozioni e accompagnando sempre le esperienze con il racconto di quello che succede ma anche di quello che si prova.

Per esempio, in un momento di forte tristezza o rabbia perché si vuole rimanere al parco a giocare oppure si vuole intensamente un giocattolo, proviamo innanzitutto a “stare” in quella sua tristezza/rabbia, anziché cercare subito la serenità offrendo distrazioni (spesso noi adulti ci sentiamo scomodi nell’accettare anche emozioni negative, ma anche quelle imparando ad accettarle e a gestirle servono per crescere); poi chiediamo come stai? Come ti senti? In questo modo staremo dimostrando loro di essere disponibili e presenti anche affettivamente ed emotivamente: spesso lo siamo solo fisicamente e condividiamo con il bambino solo lo spazio trovandoci sì nella stessa stanza col corpo ma senza essere emotivamente disponibili in quel preciso momento, e sintonizzandoci con loro staremo insegnando a imparare a riflettere sulle emozioni e all’importanza dell’interessamento di come si sentono gli altri, quindi a essere empatici e a costruire e mantenere relazioni positive indispensabili per crescere bene.

Ti è piaciuto questo articolo?
Condividilo con chi ami 💙

Articolo realizzato da:
Dott.ssa Stefania Ravasi
Psicologa psicoterapeuta dell’età evolutiva
5/5
Articoli correlati
Video correlati
Altri esperti che parlano di questi argomenti

Paola Cannavò

Psicoterapeuta e pedagogista clinica

Serena Lauria

Psicologa clinica e psicoterapeuta

Giuditta Mastrototaro

Pedagogista

Mariagiulia Pistone

Psicologa clinica

Elisa Trezzi

Pedagogista e insegnante di massaggio infantile AIMI

Carol Pizzolante

Psicologa clinica e arteterapeuta

Samantha Dionisio

Pedagogista e formatrice

Giulia Binaghi

Psicologa clinica e psicoterapeuta dell'età evolutiva

Giada Maccan

Psicoterapeuta e Psicologa dello sviluppo

Cinzia Trigiani

Consulente della relazione di coppia e della famiglia

Crea gratis il tuo profilo e ricevi i contenuti adatti alla tua famiglia