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L’utilità dell’essere disconnessi

disconnessi

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Spesso si parla di quanto sia importante dimenticare i propri smartphone qualche ora durante il giorno, ma non si riflette su quanto la disconnessione sia importante nell’equilibrio familiare oltre che individuale.

1. Introduzione

Siamo always-on, con lo smartphone sempre acceso e al massimo col silenziatore attivato. L’occhio costantemente vigile per eventuali nuove notifiche. Abbiamo letto più volte quanto sia importante spegnere lo smartphone e rimanere disconnessi, ma, al contempo, siamo convinti che essere sempre reperibili ci renda genitori migliori, lavoratori seri, social networker affidabili. A tal proposito bisogna fare le dovute distinzioni, altrimenti la trappola non è solo negli smartphone, ma anche nella nostra testa e rischiamo di trasmettere cattive abitudini o messaggi sbagliati e incongruenti. Avere un filtro nella rubrica per cui il telefono squilla anche in modalità silenziosa quando chiama la moglie o il figlio è una questione, mentre essere sempre connessi e rispondere o chattare a qualsiasi ora con colleghi o amici può essere persino sbagliato o controproducente coi figli. Come fare ad essere autorevoli coi propri figli adolescenti sul “non stare sempre sul telefono” quando anche noi genitori abbiamo sempre lo smartphone in mano? Detto così, il discorso che sto per avviare potrebbe essere malinteso, perché non voglio attaccare l’imprenditore o il medico che della reperibilità ne fa una parte fondante del proprio lavoro (ammesso e non concesso che reperibilità non significa esseri reperibili sempre e ovunque).

In realtà il fulcro dell’analisi che sto avviando è riferito alle caratteristiche delle tecnologie moderne che innescano fenomeni di dipendenza (come in parte già affrontato in questo mio precedente articolo) e di come gestire questa dipendenza in tutta la famiglia nel momento in cui nel mio cervello si attivano meccanismi simili a quelli della dipendenza da droghe. Tanto per essere espliciti: come genitori non possiamo essere figure educative autorevoli se nel gioco della dipendenza da tecnologie digitali non ci inseriamo pure noi. E come fare? Beh, intanto, prima di elencare le regole, bisogna capire a che gioco stiamo giocando.

2. Il sistema dopaminergico

Il collegamento con nuovi media e droghe ha una lunga storia, ma l’esperimento più eclatante che ha focalizzato l’attenzione pubblica sul funzionamento del cervello in questi ambiti è probabilmente quello di Koepp, Gunn, Lawrence e Cunningham del 1998. In tale occasione si scoprì come il cervello di chi giocava ai videogiochi rispondesse con scariche di dopamina durante le sessioni di gioco, in maniera simile a persone dipendenti da sostanze stupefacenti. L’articolo fece molto discutere e pose dei seri problemi anche a livello di opinione pubblica per i gamer, perché venne costantemente usato per esorcizzare il videogioco come una pratica orrenda quanto l’assunzione di droghe. La dopamina (da cui il nome del sistema dopaminergico) è una sostanza che svolge diverse funzioni nel cervello e che ha direttamente a che fare con la sensazione di gratificazione e ricompensa quando raggiungiamo un obiettivo. Il rilascio di dopamina è legato anche alla sensazione di piacere e gratificazione e difatti viene spesso citato nel caso del piacere sessuale o nel caso del sistema di ricompensa che agisce nella persona dipendente da una sostanza psicoattiva (ricordiamoci comunque che ogni sostanza psicoattiva, oltre al rilascio di dopanina, ha sue caratteristiche specifiche e relativi effetti sul nostro corpo dalla caffeina alla cocaina, dalla nicotina alla psilocibina). Proprio perché legata a piacere, gratificazione e ricompensa (oltre che ad altri fenomeni neuronali), la dopamina è una sostanza molto utilizzata nella stampa di divulgazione scientifica in ambito neuroscientifico, così come anche l’adrenalina, la serotonina, l’ossitocina e le endorfine. Diciamo che è una sostanza che va di moda e riconosciuta anche dai non esperti.

A cambiare le carte in tavola rispetto al rapporto con le tecnologie digitali, fu un articolo del 2012 di Frank Rose, che propose un “nuovo campo d’azione” per questa sostanza. Tale svolta, anche a livello culturale, può essere meglio analizzata nel suo libro Immersi nelle storie, quando spiega che quasi ogni nuovo mezzo di comunicazione può essere considerato una narrazione e un gioco, che stimola in noi la produzione di dopamina, invogliando il consumatore/fruitore/giocatore a un meccanismo di ricompense e gratificazioni date dal piacere conseguente al raggiungimento di obiettivi (o dell’anticipazione del raggiungimento stesso):

“Ogni narrazione con caratteristiche simili a un gioco, cioè ogni storia che ti invita nel suo mondo, può appellarsi all’istinto di ricerca delle persone. Siamo tutti a caccia di cibo, punti, attenzione, amici, vincite, un finale felice ed epiloghi di ogni genere.”

Rose ha anticipato scoperte che sono arrivate diversi anni dopo, citando Jaak Pansepp e paragonando i meccanismi anticipatori di ricompensa causati dalle slot machine a quelli degli uomini primitivi e degli animali alla ricerca di cibo:

“Questo sistema emozionale … rende gli animali estremamente interessati a esplorare il loro mondo, e li eccita quando sono vicini a ottenere ciò che desiderano. Alla fine permette agli animali di trovare e anticipare con eccitazione le cose di cui hanno bisogno per sopravvivere, inclusi, ovviamente, cibo, acqua, calore e il loro bisogno evolutivo fondamentale per sopravvivere, cioè il sesso. In altre parole, quando sono completamente eccitati, la loro mente si riempie di stimoli che spingono il loro organismo … a mettersi in cerca delle cose di cui hanno bisogno, che agognano e desiderano.”

Per chiudere il quadro sul rilascio di dopamina legato ai nuovi media e in particolare ai social media, non possiamo ignorare un film del 2020, il docu-fiction Social Dilemma. Al di là delle critiche sugli aspetti cinematografici o narrativi, il film spiega come le interfacce e le funzionalità delle bacheche dei social network, e in generale di quasi tutte le app presenti sui nostri smartphone, siano programmate per stimolare la produzione di dopamina e, cioè, per renderci dipendenti dai nostri device tecnologici.

3. Sulla stessa barca: cosa comporta essere disconnessi

Quasi sempre pensiamo all’educazione come a un sistema asimmetrico, in cui cioè l’educatore “ne sa di più” rispetto all’educando e, in virtù di questa “differenza di saperi”, avvenga il passaggio di conoscenze nel rapporto educativo (in pedagogia infatti si parla di asimmetria educativa e nella nostra mente abbiamo proprio l’immagine dei maestri con gli scolari: i primi ne sanno molto di più dei secondi e in base a questa asimmetria possono educare e cioè trasmettere la loro conoscenza ai secondi che ne sanno di meno). Nel caso delle nuove tecnologie, molto spesso non è possibile far valere tale asimmetria, se non illudendoci che siano i nostri figli e le giovani generazioni ad avere problemi con le tecnologie. Ora, invece, abbiamo capito che tutti noi che utilizziamo le tecnologie digitali contemporanee abbiamo problemi di dipendenza e che la questione è legata al funzionamento del nostro cervello e alle caratteristiche dei software di oggi. Come se non bastasse ci sono studi che cominciano a delineare altri problemi (anche se siamo ancora in una fase di scoperta e di possibili errori in tal senso) quali la difficoltà di concentrazione e di memorizzazione che spesso diventano cavalli di battaglia di esponenti politici ed opinionisti contrari alle tecnologie digitali.

Essere consapevoli di tali problemi e riuscire a confrontarsi in merito ad essi coi propri figli è il primo punto fondamentale per poter avere un ruolo educativo autorevole coi nostri figli: prima di tutto dobbiamo dimostrare loro che non sono soli, e che siamo sulla stessa barca, insieme. Nell’ambito delle tecnologie digitali un vero aiuto ai nostri figli può venire propria dalla caduta dell’asimmetria educativa e da una condivisione di come chattare senza offendere ed esseri offesi o di come gestire un profilo Instagram senza sentirsi inferiori alla bellezza delle mie compagne di scuola o colleghe di lavoro. Certo non sto dicendo che dobbiamo diventare adolescenti e “amiconi” dei nostri figli, ma di cercare strategie insieme, senza porsi su piedistalli, consapevoli di essere tutti “vittime” di un sistema tossico digitale e di doverci fare forza l’uno con l’altro.

Affrontare il tema dell’hate speech sul web e di come anche questi aspetti abbiano componenti che sfruttano le nostre caratteristiche neurobiologiche all’interno di piattaforme programmate per tenerci incollati allo schermo, può essere fatto insieme, per cercare di capire come la violenza verbale è un meccanismo perverso frutto della spirale della polarizzazione contemporanea e di meccanismi sociali tipici dell’essere umano odierno.

4. Discernere correttamente: connettersi e disconnettersi

Ora che abbiamo proposto un metodo pedagogico (o preferirei dire un canale comunicativo/educativo) è il caso di concentrarsi sui problemi che i figli potrebbero avere e che le tecnologie digitali potrebbero esasperare o far degenerare, proprio in base alle caratteristiche sopra descritte. Bisogna quindi imparare a distinguere quelle che sono le caratteristiche dei social media e new media contemporanei (stimolazione del sistema dopaminergico, bacheche infinite con gruppi polarizzati, sistema ansiogeno delle notifiche ecc) dalle caratteristiche proprie, nostre o dei nostri figli e che possono essere anche negative (depressione, ansia, facile irritabilità ecc). Una volta fatto questo processo possiamo capire meglio la pericolosità del mix tra questi due insiemi di problematiche. Per esempio, se mio figlio ha già dimostrato ansia in merito alle prestazioni scolastiche alla scuola primaria, sarà meglio avere una certa attenzione nel momento in cui avrò acquistato per lui lo smartphone al compimento del tredicesimo anno: il sistema di notifiche potrebbe alterarlo ulteriormente e forse un intervento sulle notifiche push sarebbe di grande aiuto. Oppure, se mia figlia ha già espresso in diverse occasioni disagio sul proprio aspetto fisico, forse non sarà il caso di permetterle di aprire un account Instagram o per lo meno sarebbe consigliabile la presenza di un genitore le prime volte che inizia a seguire altri account e ad utilizzare la piattaforma, per poi comunque monitore la situazione con attenzione e costanza.

Precisiamo, al momento non c’è la capacità di dire se il mondo dei social influisce e quanto sulla depressione dei giovani, sia perché si investe poco e sempre meno in questi rami, sia perché il web è un mondo complesso e vasto, all’interno del quale ci sono sia adolescenti che trovano sollievo e costruiscono community che li aiutano a superare stati di solitudine e disagio, sia teenager che invece trovano hate speech, sexting e cyberbulling che li feriscono. Per una buona panoramica su vari tipi di studi che sono stati effettuati e che hanno esiti diversi sui legami tra utilizzo dei social media e benessere psicologico rimandiamo a questo link, in cui possiamo annoverare sia scienziati che dicono che non ci sono dati che possano supportare la tesi per cui l’uso prolungato dei social network sia legato a stati di depressione, sia scienziati che sono giunti alla tesi opposta. Le conclusioni dell’articolo sono molto importanti e suggeriscono che se una persona è già nello spettro depressivo o di altri problemi psicologici, i social media possono divenire un’ulteriore causa di peggioramento della propria condizione.

Studiare la correlazione tra sanità mentale e uso dei social network è complesso (se non impossibile), perché i parametri in gioco sono tantissimi, dalle caratteristiche caratteriali della persona ai pulsanti e funzionalità di un’app. Proprio per questo risulta importantissimo cercare di avere un quadro esaustivo delle possibili cause o concause legate al malessere mentale di un adolescente che possono trovare un evento di amplificazione nelle nuove tecnologie. Tali cause potrebbero essere

In secondo luogo è importante fare una distinzione nell’uso dei social media che un adolescente può fare, poiché c’è una notevole differenza tra chi posta articoli, video e foto rispetto a chi solamente li legge/consulta. Prendiamo come punto di partenza questo studio per cominciare a districarsi nella complessità: nell’esito della ricerca viene fatta differenza tra l’uso attivo dei social media (postare articoli, foto, video ecc) rispetto all’uso passivo degli stessi (lettura, visione e semplice consultazione di post e bacheche). Nel primo caso il tasso di depressione non è correlato al social networking, nel secondo caso sì. Sembra una sciocchezza, ma moltissimi adolescenti non si sentono sicuri della propria immagine e anzi hanno repulsione o sono a disagio col proprio aspetto fisico, per cui non postano nulla sui social network, ma li consultano continuamente (e spesso anche in maniera tossica, come se fossero “drogati” dallo scroll sulle bacheche) alla ricerca di conferme su come dovrebbero apparire o meno, prendendo come esempio influencer, cantanti, attori, amici, rappresentanti di istituto, personaggi del quartiere ecc. Distinguiamo attentamente quindi il tipo di uso che viene fatto di una bacheca e del cosiddetto infinite scrolling. Cerchiamo di entrare nel dettaglio della partecipazione e produzione di contenuti che noi e i nostri figli facciamo delle tecnologie digitali e cioè sapere se prevalentemente pubblichiamo o fruiamo dei social media.

5. Cosa fare quando si è disconnessi

Cerchiamo ora di capire a quali conclusioni generali è possibile giungere tenendo conto di tutti gli aspetti analizzati finora. Ovviamente se si ha un figlio che ha problemi relazionali e comportamentali, le decisioni in merito all’uso di smartphone, social networking e quant’altro andranno prese coi dovuti riguardi e magari con la consulenza di uno specialista. Per tentare, comunque, strategie di compensazione alla stimolazione dopaminergica delle tecnologie digitali, possiamo consigliare le seguenti azioni concrete:

Sembrerà banale, come qualcosa “di già sentito”, ma ammettere a se stessi e ai propri familiari che tali tecnologie ci rendono assuefatti è come dire alle giovani generazioni che anche noi genitori siamo vulnerabili e queste tecnologie sono problematiche per noi come per loro. Questa “simmetria educativa”, in questo specifico ambito, potrebbe persino facilitare il confronto e il dialogo su altri argomenti che magari sono sempre stati ostici. Sfruttiamo quanto di positivo ci possono dare le tecnologie digitali, sia in termini di esperienza e contenuti, sia in termini di confronto sul loro funzionamento applicato alle nostre vite tra neurobiologia e pulsanti da evitare. Concediamoci momenti di dialogo coi nostri figli in cui anche noi potremmo ricevere buoni consigli da loro o in cui loro potrebbero rimanere sorpresi dal fatto che anche un genitore ne sa qualcosa di TikTok di cui non erano a conoscenza. E soprattutto, concediamoci delle pause dal digitale, facciamoci trovare disconnessi, per riscoprire momenti individuali e familiari veramente intimi.

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