empatia
Dott.ssa Giuditta Mastrototaro

Dott.ssa Giuditta Mastrototaro

Educare con empatia vuol dire non porre i limiti?

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Empatia vuol dire essere in connessione con sé stessi e con gli altri. Quando creo una relazione empatica, significa che funziona nei due sensi: io ascolto e l’altro ascolta me.

Indice

1. Introduzione

Il fraintendimento che è spesso generato nel concetto di educare con empatia è che un’educazione empatica sia fondamentalmente non dare limiti, oppure che i bambini facciano tutto quello che vogliono e gli adulti dicono sempre di sì.

Empatia vuol dire essere in connessione con sé stessi e con gli altri e quando creo una relazione empatica, vuol dire che funziona nei due sensi io ascolto e l’altro ascolta me.

La differenza fondamentale che fa la pedagogia fondata sull’empatia è che non si basa sul potere: io vinco e tu perdi o viceversa. Tali metodi educativi autoritari o permissivi sono stati ampiamente studiati e documentati come ostacolanti alla crescita di una persona autonoma e felice.

L’educazione empatica da me intesa crea quell’ambiente fertile, quel clima accogliente, quello spazio di ascolto in cui tutte le competenze delle persone in relazione possono germogliare, crescere e dare frutto.

Ecco alcune riflessioni che possono aiutare comprendere meglio il concetto del limite e qualche accorgimento utile per imparare a rispettarli:

2. Empatia: imparare dagli effetti naturali delle azioni

I limiti sono elementi naturali del nostro vivere: quando attraversi la strada, sai che ti è utile guardare per non essere investito, quando maneggi un libro sai che se strappi le pagine poi ti sarà più difficile ricordarne la storia ecc… Questi sono gli effetti naturali delle nostre azioni ed è la vita ad insegnarci quali effetti hanno le nostre azioni. L’effetto naturale delle nostre azioni è un cardine importante nella crescita della persona verso l’autonomia.

Maria Montessori scrive:

Chi è servito invece di essere aiutato, in un certo modo è leso nella sua indipendenza”.

Ciò vuol dire, che anche con le più buone intenzioni servire o iperproteggere i figli, per fare al posto loro o per rimediare al più presto alle piccole o grandi difficoltà che i nostri figli incontrano, non aiuta la crescita e la responsabilità nel bambino.

Potrà sembrare un po’ spaventoso per alcuni genitori ma a volte è più utile lasciare che i nostri figli si sporchino, piuttosto che intervenire immediatamente, lasciandogli il tempo di pulirsi da soli o chiederci aiuto, lasciargli il tempo per discutere, litigare, perché possano trovare le loro soluzioni, che facciano i compiti anche con qualche errore, per poi scoprire che l’errore non è una cosa così terribile, ma semplicemente ci indica la strada su cui bisogna lavorare.

3. Conoscere le tappe evolutive del bambino per instaurare empatia

Le relazioni non sono qualcosa di statico, ma sono soggette a una crescita e a uno sviluppo che segue i propri ritmi, è importante conoscere lo sviluppo psicofisico e cognitivo di un bambino.

Alcuni genitori magari di bambini intorno ai 14/15 mesi possono essere spaventati nel non riuscire a dare dei limiti. In realtà, se osserviamo un bambino di quindici mesi, notiamo che il limite, egli ancora non è grado di comprenderlo. Ad esempio: gli si può dire di non toccare il cestino della spazzatura, lui può ripetere a voce alta: “No” e con il ditino dice no e poi tocca la spazzatura, con un bel sorriso. Il fatto è: che ha detto di no e ha fatto il gesto del no e poi ha toccato la spazzatura.

Le interpretazioni di questo comportamento per quanto possano preoccupare spesso sono del tutto fuorvianti: “Non mi vuole ascoltare” “E’ un bambino cocciuto”. In questo caso il problema è che c’è qualcosa che non va nel bambino.

Oppure: “Non sono capace di farmi rispettare, sto crescendo un bambino viziato”. In questo caso il problema è della madre.

Ad alimentare i dubbi dei genitori possono essere commenti come: “Ormai il tuo bambino fa quello che vuole, se va avanti così, non riuscirai a educarlo”. In questo caso il problema è delle cattive abitudini e di un futuro nefasto.

Queste interpretazioni al comportamento del bambino sono prive di un dato importante: il rispetto delle sue tappe evolutive [1]. Quando diciamo: “No! Non mettere le mani nel cestino” ad un bambino intorno ai 15 mesi semplicemente non ne comprende il significato verbale.

Pensate a quanto sia difficile per lui riuscire a capire prima l’azione di mettere le mani nel cestino e poi a negarla. È un processo mentale piuttosto complesso per un bambino intorno a quell’età. Anche se può intuire il tono della nostra voce, probabilmente sente più forte la spinta verso la scoperta, la curiosità e il gioco.

Ogni volta che giudichiamo noi stesse come incapaci o il bambino come capriccioso o cocciuto lediamo la nostra o l’altrui autostima, dove “autostima non vuol dire avere una buona opinione di sé in astratto, bensì la capacità di far fronte alle sfide della vita”[2] . Quando troppo spesso, questo senso d’impotenza o di rabbia ci assale, è tempo di fermarsi e chiedersi se c’è una buona ragione per cui l’altro non fa come noi vorremmo.

Offrendo nuove strade di lettura e corrette informazioni sullo sviluppo evolutivo del bambino la pedagogia può restituire il potere educativo ai suoi genitori, consapevoli e attenti nel fare richieste adatte all’età.

[1] Rosario Montirosso. Il bambino e le emozioni. Editore Ghedini Libraio. Milano 2001 Tappe di sviluppo emotivo pp 24-25-26.

[2] Sue Gerhardt Perché si devono amare i bambini. Raffaello Cortina Editore. Milano 2006. Le fondamenta instabili e le loro conseguenze pp.93-95

4. Se mio figlio dice no?

Posso chiedere a mio figlio cosa desidero che lui faccia, con rispetto e fiducia, e sono aperto anche a un no. In ogni no che il figlio o il genitore esprime c’è sempre dietro un sì.

Rispondo di “no” quando sto dicendo sì a qualcos’altro. Ad esempio dico “no” a mio figlio quando mi chiede di giocare con lui, perché sto dicendo “sì” al mio bisogno di pace e al mio sentirmi stanco, ma ciò non vuol dire che non ci posso giocare più tardi.

Mio figlio mi dice di no, che non vuole lavarsi i denti perché in questo momento sta dicendo sì al suo bisogno di autonomia, desidera scegliere il momento in cui è pronto a lavarsi i denti.

Avere consapevolezza di tutto questo, ci aiuta a comprendere dove sono radicati i nostri no.

Il “no” non è quasi mai la fine di una conversazione, può diventarne l’inizio, dove prima di etichettare l’altro come sbagliato, perché ci sta dicendo il suo no, cerchiamo invece di scoprire a cosa sta dicendo “sì”.

Partendo da questa consapevolezza sarà più facile trovare un punto di accordo, nel quale bisogni di entrambi siano soddisfatti. Essere empatici non vuol dire che non rispettiamo i limiti naturali della vita e che non diciamo dei “no”. Infatti, per essere empatici, occorre essere autentici con noi stessi e con gli altri.

Se qualche comportamento di mio figlio o mia figlia mi infastidisce, possiamo certamente dirlo, ma appunto scegliendo di esprimerci in prima persona, in una modalità che non lede l’autostima di nessuno, ma che esprime il nostro sentire a quella situazione specifica.

Spesso invece i nostri giudizi sull’altro ci inducono a dare ultimatum “Se non mangi il primo, non avrai il dolce”, il ricatto affettivo “La mamma non ti vuole più bene”, la recriminazione e l’accusa “Sei un bambino indisponente”, l’insistenza “Metti tutto in ordine bene, dai, forza” e il voler aver ragione “Ti ho detto di farlo punto e basta!”.

Tutte queste strategie usate con continuità e perseveranza ledono i rapporti umani, perché sono tutti modi di controllare gli altri. In queste occasioni giudichiamo gli altri in funzione di ciò che è giusto per noi. Ci chiudiamo all’altro.

5. Imparare a distinguere l’altro da sé per poter instaurare empatia

I genitori e i figli che desiderano invece alimentare una relazione empatica si affidano a un tipo di connessione in cui riconoscono che l’altro è distinto da sé perché nessun figlio è venuto al mondo per soddisfare i bisogni di un genitore e nessun genitore può umanamente soddisfare tutti i bisogni di un figlio.

La cosa più onesta che genitori e figli possono fare è restare in una relazione di fiducia nella quale ci si impegna a trovare un modo, una strada perché i bisogni di entrambi siano soddisfatti.

Quando due esseri umani sono in relazione e come se uno dicesse all’altro: “Ho compreso come ti senti e scelgo di rispondere a ciò che mi chiedi”. Il limite è rispettato sulle solide basi della relazione empatica.

6. Empatia: scegliere di coltivare la relazione al posto dell’uso del potere

Senza relazione non c’è rispetto profondo per l’altro e le scelte sono dettate dalla paura, dalla vergogna o dalla colpa.

Ecco allora prima di intraprendere una qualsiasi forma di coercizione sui nostri figli chiediamoci su quali basi desideriamo che i nostri figli rispettino i limiti: Perché lo pretendiamo o perché hanno compreso il significato del limite? Perché provano rispetto per la relazione o perché hanno paura, vergogna o senso di colpa?

Tutte le volte che pretendo che mio figlio faccia ciò che voglio io, implicitamente assegno maggior valore a me rispetto all’altra persona. Invece di usare le pretese, cosa ci impedisce di esprimere i nostri desideri e preferenze in modo positivo?

Ad esempio: “Sei proprio disordinato, lasci tutti i giochi in giro! Riordina subito!” Sembra un giudizio e una pretesa. Invece quando dico: “Quando vedo i tuoi giochi sparsi per la stanza, mi sento stanca all’idea di rimettere tutto in ordine. Mi aiuti a riordinare la tua stanza, mettiamo tutti i giochi nel cesto?”. È più vicina a una richiesta che esprime i miei sentimenti e non giudizi sull’altra persona.

7. Empatia: dare più valore alle domande che alle risposte

Se stiamo allora per esprimere un’accusa o una pretesa fermiamoci a osservare qual è il mio bisogno? Qual è quello di mio figlio? Di chi è il problema? Nostro? O di nostro figlio? Possiamo donare a nostro figlio la possibilità di fare le sue esperienze e di assumersi delle piccole responsabilità di ciò che accade?

Possiamo anche scegliere di essere incerti, di darci del tempo per pensare, di lasciar fluire il tempo per vedere che cosa accade. Quanto più siamo certi, tanto più siamo chiusi ad altre possibilità.

Stare dalla parte delle domande vuol dire darci la possibilità di immaginare, di ascoltare, di essere aperto all’altro, di rispettare i miei e gli altrui limiti, insomma di essere in una relazione empatica.

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Articolo realizzato da:
Dott.ssa Giuditta Mastrototaro
Pedagogista
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